Efisio Marini al lavoro in
una rappresentazione dei disegnatori Luzzoni & Fundoni
Ripercorrendo
il cammino a ritroso Marini pensava di scoprire come si poteva fermare
il processo di degradazione delle sostanze organiche e si dedicò
così agli esperimenti sui cadaveri, presso la Scuola di Anatomia
dell’Università e, dopo i primi risultati, nell'obitorio
del cimitero, dove operava quasi in segreto per non spaventare i
visitatori col suo macabro lavoro. E ve n’era ben donde se pensiamo
al tipo di lavoro che compiva e in quale cornice gotica, degna di
un racconto di Poe, come scrisse l’Alziator (F. ALZIATOR, I morti
di pietra, n°5, cit., pp. 14-15).
Marini, tuttavia, a smentire il suo carattere ombroso e ritirato,
conduceva anche una vita “normale”, presto si sposò con la
bella ma gracile Carmina e da lei ebbe due figli, Vittore e Rosa;
nel frattempo, però, proseguiva alacremente i suoi studi.
Finalmente dopo anni di tentativi, una notte la sua perseveranza
fu premiata. Gli esperimenti che aveva compiuto sul braccio di un
cadavere diedero risultati sorprendenti. Marini era riuscito non
solo ad arrestare il processo della decomposizione, ma anche a conservare
ai tessuti e ai muscoli l'elasticità e la plasticità
che possedevano in vita e a mantenere in essi l'incarnato originale.
Il metodo di conservazione del Marini era diviso in tre fasi: conservazione
del pezzo anatomico allo stato coriaceo; pietrificazione vera e
propria; mantenimento delle condizioni raggiunte, con colorito e
flessibilità originali. Un sistema che, come vedremo, lo
scienziato continuò a perfezionare con gli anni, aggiungendo
sostanze od eliminandone altre, fino a raggiungere risultati quasi
perfetti.
Marini preferì non divulgare immediatamente la sua scoperta,
avvenuta presumibilmente agli inizi del 1861, in attesa di dimostrare
in maniera definitiva che col suo metodo si poteva impedire la decomposizione
delle intere spoglie di un defunto ma già agli inizi del
1862 spedì i suoi primi lavori di pietrificazione a Torino,
perché fossero esaminati da una commissione nominata dal
Ministro dell’Istruzione ("La Gazzetta
Popolare”, Cagliari, 22 gennaio 1862), altri lavori
furono invece spediti a una commissione londinese, presieduta da
Richard Owen, una delle massime autorità in materia (“La
Bussola. Foglio della domenica”, Cagliari, domenica 24 agosto 1862,
p. 15). Spinto da questi primi successi Marini si preparava
a compiere il passo decisivo: operare su un corpo intero.
Intanto
a Cagliari cominciava a crearsi un clima che era un misto di gelida
indifferenza, scetticismo e, da parte di molti, aperta ostilità
nei confronti del Marini e delle sue scoperte. Alcuni colleghi cagliaritani
del Marini, invidiosi dei suoi successi scientifici, non perdevano
occasione per denigrarlo sulla stampa locale e anche in quella continentale,
dove godevano di un certo ascolto. Dal giornale torinese “Espero
– Giornale delle Tenebre” erano piovuti dei commenti sarcastici
sull’operato del Marini, commenti suggeriti da Cagliari . A questi
avevano replicato, da Cagliari, alcuni simpatizzanti del Marini,
con articoli sulla “Gazzetta Popolare” e sul foglio domenicale “La
Bussola” . In particolare, su quest’ultimo giornale, gli amici del
Marini non perdevano occasione nel ricordare come fra i sardi l’invidia
e la mancanza di fratellanza fossero ancora dei vizi duri da estirpare.
La polemica era diretta, soprattutto, verso “quei professori, i
quali si divertirono inviando lettere vilissime in Torino, per iscreditare
questa scoperta” .
Nonostante queste difese il Marini fu sempre più spesso oggetto
di attacchi e addirittura prese in giro canzonatorie, che arrivarono
anche dai livelli più popolari, come in un incredibile “Gocciu”
che si cantava per le vie di Cagliari:
“Unu
tontu che sa perda su chi salidi is pippius, circada de spilidi
is bius nendi chi imperdada is mortus, ma cum totus is cunfortus
adi fattu cucurumbeddu”.
(Un tonto come le pietre quello che mette i bambini sotto sale,
tenta di pelare i vivi dicendo che pietrifica i morti, ma con tutti
i conforti, ha fatto capitombolo).
La
denigrazione, va detto, non era rivolta solamente al Marini ma anche
ad altri personaggi della vita cagliaritana, dileggiati in altri
versi e sospettati di appartenere a quella massoneria che voleva
mangiarsi la città. Noi non abbiamo prove concrete dell’appartenenza
del Marini alla massoneria , tuttavia in questa canzone denigratoria
c’è tutta la vita dello scienziato, le amarezze che dovette
sopportare nella sua Cagliari, lo spirito con cui venivano accolte
da molti le sue scoperte, la povertà e la meschinità
di una “quasi città” che, nonostante le imponenti opere di
modernizzazione, non riusciva a mascherare la sua anima gretta e
provinciale e che, soprattutto, non riusciva ad accettare che un
uomo solo, o meglio, isolato, lontano dai salotti mondani cittadini,
dalle beghe e dagli intrallazzi, potesse affermarsi col suo lavoro
in tutta Europa. Era troppo per un posto come la Cagliari del XIX
secolo.
Deriso e anche offeso per la bizzarria e il suo modo di agire, Marini
era però uomo caparbio e, come tale, più che mai deciso
ad ottenere un riconoscimento ufficiale e definitivo nella sua amata
odiata Cagliari. Non era possibile che le sue scoperte fossero trattate
come cosa di poco conto o peggio, ignorate, mentre nel resto d’Italia
e anche all’estero cresceva l’interesse verso la sua scienza.
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