RELAZIONE
DI GIANFRANCO MURTAS SUGLI ANNI GIOVANILI DI EFISIO
MARINI
PRESENTATA A “GLI AMICI DEL LIBRO” (2008)
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Gli
Amici del libro funzionavano ormai da due anni, dopo l’avvio isilese,
quando Francesco Alziator dedicò alla figura di Efisio Marini
un lungo articolo in due puntate, apparso sul “Convegno”, quasi
al suo esordio. Sul n. 6 del giugno 1946 (e a proseguire sul n.
9).
All’apparenza, ad unire Alziator ad Efisio Marini era la comune
nascita nel quartiere della Marina: circostanza che sembrava suggerire
e aggiungere allo scritto dell’ancora giovane professore, un certo
pathos evocativo, un soffio romanzesco (e qualche innocente invenzione)
alla biografia nuda e cruda. Dopo gli sconquassi della guerra che
avevano seppellito anche la casa familiare dei Marini, era quello
il primo e tempestivo ricordo di un grande cagliaritano, cui avrebbe
fatto seguito, purtroppo, un lungo silenzio.
Si vedrà però che anche un altro e più solido
legame associava il narratore al protagonista della storia: addirittura
un legame di sangue, di familiarità.
Soggiungo, insistendo ancora sugli Amici del libro: fu Nicola Valle,
presidente dell’Associazione e direttore della rivista, che, richiamando
la lapide boviana come unico riconoscimento pubblico a tanto valore,
scrisse nello stesso numero del “Convegno”, che usciva all’indomani
delle prime elezioni amministrative dopo giusto un quarto di secolo:
«Speriamo che Luigi Crespellani, sindaco umanista, voglia
rimediare all’oblio immeritato, intitolando a lui almeno una strada».
Ciò che si sarebbe avverato alcuni anni più tardi
col battesimo delle vie alle spalle del palazzo di Giustizia, ancora
fresco di inaugurazione e ancora incompiuto.
La stampa locale – leggi soprattutto “L’Unione Sarda” – negli anni
del fascismo se n’era occupata, di Efisio Marini, ma rapsodicamente,
e con qualche occasionale ripetitività di argomenti.
Ho ricacciato gli articoli del 1935 – usciti nel centenario della
nascita di Marini – e soprattutto quello scritto dal nipote forse
più noto, quel Felice Melis Marini pittore e poeta che era
figlio della cugina Annunziata Marini e dell’ingegner Enrico Melis
Romagnino, il progettista del celeberrimo mercato-partenone di Cagliari
visitato da Lawrence e dalla sua “a-r”.
Felice Melis Marini – cui lo stesso “Convegno” avrebbe più
volte dedicato numeri monografici – era già avanti con l’età
nel 1935, contava ormai 64 primavere, e di primavere ne risvegliò
alcune delle sue prime adolescenziali, ricordando le visite compiute,
insieme con i familiari, presso la casa di quello zio geniale e
inquietante a Napoli: una casa-museo, o una casa-cimitero, allora
in «un antico palazzo» di via Monte di Dio – «una
strada gaia, in pendenza, che conduceva a Pizzofalcone ed alla Nunziatella»
–, una casa piena di pezzi anatomici pietrificati distribuiti per
corridoi e stanze; fra essi addirittura il cadaverino integro di
una bimbetta. Doveva essere qualcosa come il 1885, forse all’indomani
della grande tragedia della epidemia colerica che aveva colpito
la Campania. E a pochi anni dalla morte di Giuseppe Garibaldi, del
quale Marini – ammiratore del Generale così come suo fratello
Salvatore ne era stato soldato agli ordini – aveva pietrificato
il sangue uscito dalla ferita occorsa nell’episodio di Aspromonte.
Faccio una parentesi: di quelle gite partenopee conserva memoria
visiva, grazie alle fotografie che erano in famiglia, ma che sono
purtroppo andate in fumo per l’impulso fondamentalista di una congiunta
fattasi monaca e che poco si compiaceva di uno zio come il medico
che “combatteva la morte”, la gentilissima signora Marilena Fantola
Marini sposata col professor Elio Del Piano, che a suo tempo ho
intervistato. Viene, la signora – Marini per parte di madre –, dal
filone di Ignazio, il fratello di Efisio di due anni più
giovane di lui, il quale aveva sposato una Agus, al cui ceppo d’origine
appartiene anche l’indimenticato nostro Gianni Agus. Ignazio e sua
moglie e i due figli – uno avrebbe seguito, da adulto, i commerci
di ferramenta del padre, e l’altro sarebbe stato un primario ospedaliero
noto e stimato – andavano con qualche frequenza, negli ultimi decenni
dell’Ottocento, a Napoli, tanto più dopo la morte prematura
di Carmina – pardon, Giuseppa – che aveva lasciato Efisio solo con
i due figli ancora adolescenti. Dicevo della stampa. “L’Unione Sarda”
se ne era occupata molto, del nostro dottor Efisio, nell’ultimo
decennio del secolo vecchio, tanto più intorno al 1898, quando
s’era trattato di decidere che fare delle spoglie di Pietro Martini,
pietrificate e poi restituite a elasticità tono e colorito
da Marini nel 1866, fotografate da Agostino Lay Rodriguez quattro
mesi dopo in perfetta somiglianza ad un vivente, e in attesa da
più di trent’anni di essere ostentate in un apposito monumento
(una cassa con oblò) per cui si erano raccolte, all’indomani
della morte, molte libere offerte. Siamo al tempo delle dure polemiche
fra Marini, che insisteva per il monumento, ed il sindaco Bacaredda
che, rassegnato alla perdita del denaro questuato, involatosi con
il molto altro nel fallimento bancario del 1887, intendeva sbloccare
la pratica con l’assegnazione di un loculo municipale di prima classe.
Poi se n’era occupata, ancora “L’Unione Sarda”, in quell’autunno
del 1900, per quanto che era successo a Cagliari dopo la morte triste
e anzi tristissima, in povertà, di Marini a Napoli: la corrispondenza
di lutto – la Società Operaia (di cui il defunto era socio
onorario) che scrive alla figlia Rosa, rimasta depositaria dei segreti
della pietrificazione, e la risposta di questa anche a nome del
fratello Vittore; l’iniziativa del Circolo universitario teso a
raccogliere fondi per la erezione di un monumento questa volta al
cagliaritano non capito dai cagliaritani, e prima ancora la sua
commemorazione nell’aula magna dell’università, davanti a
un pubblico largo ed ecumenico, qualificato e plaudente: oratore
Giuseppe Ciuffo, studente a Medicina, che non manca di ricordare
di ricordare una definizione che del Marini dette Francesco Saverio
Nitti, prossimo presidente del Consiglio dei ministri, che ben lo
aveva conosciuto negli anni napoletani: «Era un sardo e come
spesso sono i sardi, era una natura buona e onesta, ma leggermente
sospettosa e anche tendente alla misantropia»». Tanto
quanto bastava per escluderlo da ogni carriera.
E ancora nel 1902 (assieme all’“Avvenire di Sardegna”, foglio di
area repubblicana che bissava nella testata l’“Avvenire” del De
Francesco), quando nell’atrio dell’università venne affissa
una lapide la cui epigrafe era stata dettata nientemeno che da Giovanni
Bovio, il filosofo pugliese ma residente da lunghi anni a Napoli
e amico di Marini: mazziniano e massone aveva da condividere molto
con Efisio Marini che, per la sua supposta appartenenza alla Libera
Muratoria, entrò di velocità, nel 1865, trentenne
dunque, nei versi dei “Goccius de is framassonis”.
Questo il testo inciso sul marmo della lastra oggi in un’aula del
rettorato, ma al tempo sulla «faccia esterna della prima colonna
a sinistra entrando nell’atrio dell’ateneo» (allora l’ampio
vano d’ingresso dell’università era dominato da una sola
statua, che tutti identificavano con Cicerone, e che oggi è
confinata in un angolo appartato, monca di testa e di entrambe le
mani): «A Efisio Marini che attenuando la forza corruttrice
placò la morte non la fortuna né l’ignavia dei vivi,
che lasciarono spegnere tanta fiamma senza alimento. O Italiani,
la Giustizia postuma è rimorso». La frase – un autentico
monito morale – aveva sostituito la prima formulazione che era stata
proposta dagli studenti: «Al grande che fu ricompensato della
sua opera meravigliosa col disprezzo e la miseria».
Il medaglione era opera di Pippo Boero, l’autore, l’anno prima,
del busto di Giuseppe Verdi, collocato nello square delle Reali,
oggi piazza Matteotti. Boero, artista maturato alle Belle Arti di
Roma e alla scuola di Ettore Ferrari, futuro Gran Maestro della
Massoneria di Palazzo Giustiniani, era allora giovane di 25 anni,
massone iniziato in una loggia della capitale, passato poi, al rientro
cagliaritano, alla locale “Sigismondo Arquer”. Del suo lavoro scrivono
“Il Goliardo” (16 febbraio 1902), “L’Avvenire di Sardegna” (23 marzo
e 2 maggio 1902), “L’Unione Sarda” (3 maggio 1902).
Presente Rosa Marini – una signorina poco meno che cinquantenne,
riservata e devota alla memoria del padre –, fu il prof. Carlo Fadda,
cagliaritano docente di diritto romano e prossimo rettore a Napoli,
a tenere, all’inizio di maggio, la conferenza “in memoriam”, affiancato
dal rettore Fenoglio (preside di Medicina: la facoltà che
al giovane dottor Marini aveva negato la cattedra o un insegnamento
comunque continuativo), mentre il notaio Michele Cugusi lesse il
verbale di consegna del monumento, poi sottoscritto da una decina
di notabili e anche dal presidente del Circolo universitario Efisio
Ballero, al quale l’iniziativa si doveva. Presente, fra decine e
decine di studenti e di cagliaritani qualsiasi, molti dei quali
dovettero sostare in strada per l’incapienza degli spazi, anche
il prof. Giuseppe Picinelli che da due anni circa aveva raccolto
da Bacaredda divenuto deputato gli oneri e gli onori della sindacatura
civica.
Seguiamo ancora il percorso della stampa locale. Di Marini si occupò
nel 1907 Spiritus Asper – vale a dire Raffaele Gessa, critico musicale
e per vario tempo anche redattore del quotidiano allora ancora in
viale Umberto/Regina Margherita, che aveva sede proprio in una delle
case della famiglia Marini, fra il viale e la piazzetta – che riprese
polemicamente un articolo del settimanale del “Corriere della Sera”
attribuente a un giovane maniscalco toscano il merito del perfezionamento
della metodica conservativa dei corpi.
Non riprendo i termini della difesa d’ufficio, ben argomentata da
Spiritus Asper, che simpaticamente inizia così: «Unicuique
suum! Senza dubbio persino le abbondanti basette di Efisio Marini
si saranno commosse nella sua tomba per la strabiliante notizia,
di questi giorni, pubblicata in parecchi giornali e specialmente
nel n. 34 della milanese Domenica del Corriere». Conclusione:
«Il vivente studioso maniscalco toscano ha fatto completamente
dimenticare l’insigne nostro concittadino defunto! Fortuna – somma
fortuna – vuole però che dal prezioso segreto del cav. dott.
Efisio Marini sia depositaria la superstite sua figlia».
E siamo al fascismo ineunte, 1923 e 1924. Per una decina di volte,
con lettere, commenti, ricordi del tempo che fu, riflessioni sull’ingratitudine
umana, torna il nome di Marini sulla stampa sarda. F. Todde – F
come Francesco, o come Felice: ci furono dei Francesco e anche dei
Felice nella famiglia di Giorgio Todde, lo scrittore che tutti forse
amiamo, e chissà non si tratti di qualcuno di loro – riferisce
di una conversazione, a Napoli, con una Rosa Marini proseguente
l’opera paterna; PIC – vecchio allievo degli anni ’60 dell’Ottocento
– ricorda di un cervello umano pietrificato ed esposto ad una certa
mostra bonarina allestita a ridosso del 5° centenario dell’arrivo
a Cagliari della cassa con la statua della Vergine e il Bimbo; TOT
ribatte a PIC fornendo alcune precisazioni circa la titolarità
o meno di docenza universitaria a Napoli – è il riferimento
al titolo di “professore” generalmente attribuitogli, anche se la
docenza non fu mai quella dell’ordinario; Alessandro di Sant’Elia
rimbalza dalle pagine cinquantenarie della “Stella di Sardegna”
– la rivista sassarese diretta da Enrico Costa cui collaborò
gran parte della intellettualità sarda, Bacaredda compreso,
e che ospitò a puntate “L’iniziazione ai miei studi” del
can. Spano – con un articolo-lettera riguardante la partecipazione
di Marini alla Esposizione di Parigi; Spiritus Asper in bis che
ricorda il proprio contributo filo-mariniano del 1907 lamentando
lo svarione della scheda pubblicata da Sonzogno che fa nascere Marini
in Castiglia; l’insegnante dolianovese Lodovico Saba che vuol valorizzare
come documento storico la foto del Martini scattata da Agostino
Lay; ancora PIC che, come lo stesso Spiruts Asper, riprende quanto
pubblicato dal napoletano prof. Licastro sul “Giornale d’Italia”
pagine nazionali circa varie pietrificazioni illustri… E insomma,
per un anno e più è un bel risveglio di interesse.
Passa un decennio. Siamo adesso al 1933: esce sull’“Unione Sarda”
ormai tutta fascista un lungo articolo che viaggia per curiosità
dalle imbalsamazioni faraoniche egizie alle applicazioni mariniane.
E siamo poi al 1935 anno centenario di cui ho detto, in cui l’articolo
di Felice Melis Marini viene comunque buon ultimo dopo un redazionale
e dopo una lettera che propone come doverosa una dedica stradale
al grande nome (proposta inascoltata sarà rilanciata, ho
detto, da Nicola Valle nel 1946).
Eccoci finalmente ad Alziator, al “Convegno”, e agli Amici del libro.
Dopo i quali – dico qui per completezza di informazione, seppure
in velocità – meriti speciali per la ricordanza e anche,
taluno, per il tentativo di scavo nuovo e comunque di riordino dei
materiali, sono da citare almeno Oliviero Maccioni, con il suo “Cagliari
fra cronaca e immagini”, Marcello Serra, per un articolo sull’“Almanacco
di Cagliari” del 1985 (dove, non so perché, è scappata
insistente una chiamata in causa di Libero Bovio invece che di Giovanni
Bovio, padre di Libero e di Corso), gli ottimi amici di gran merito
riuniti attorno a Corrado Zedda ed Antonello Maccioni, che hanno
anche impiantato un sito internet a nome di Efisio Marini.
Alziator, ho accennato, era pronipote di Efisio Marini: perché
suo nonno materno – il padre cioè di sua madre Matilde –
era quel Salvatore Marini, fratello di Efisio (e di Ignazio di cui
ho detto prima, sposato con una Agus), che del dottor Efisio era
anche il collaboratore più fedele e valido. Nei romanzi di
Todde egli è l’unico fratello del quale si fa cenno esplicito.
Alziator dunque conosceva la casa dei nonni e dei bisnonni, in via
Sant’Eulalia a sinistra salendo – giusto di fronte a dove era ed
è palazzo Belgrano (divenuto poi sede del Galileo Galilei).
Quella casa era crollata per i bombardamenti del 1943. E già
nel 1942 era crollata la palazzina appena appena più giù
sulla via, di fronte alla scalinata di Sant’Eulalia, dove un aereo
era piombato distruggendo e ammazzando.
La casa dei Marini al civico 15 era stata in antico, sembra, degli
Arthemalle; acquistata dai Marini, all’inizio degli anni ’40 dell’Ottocento
era stata ristrutturata; della facciata e forse non soltanto della
facciata, s’era occupato addirittura il Cima; si conservano i disegni
di quel prospetto. Alziator la ricordava per averla frequentata
fin da bambino, anche se questo lo tace, ché vuol presentarsi
autore e non testimone. Dalle macerie qualcosa ancora emergeva.
Queste le righe che la descrivono e ne restituiscono quel tanto
di fascino che hanno, credo, tutte le case antiche: «Una grande
casa, con un ampio portone, tanto ampio che ci sostavano le carrozze,
dalle stanze sconfinate, con le volte svolazzanti di stucchi dorati
all’uso barocco, dai caminetti in marmo di molti colori… Una casa
che avrebbe fatto la sua figura nel quartiere di Castello».
Le bombe delle fortezze volanti avrebbero lasciato soltanto qualche
avanzo di portone e di muro sopra le solide fondazioni…
Lì abitavano Girolamo Marini – commerciante con scagno al
porto – e sua moglie Fedela Marturano con i loro sei figli, di cui
Efisio era il primogenito, Ignazio il secondo, Giulia – che avrebbe
sposato un medico, Francesco Cara, imparentato con dei naturalisti
e botanici di gran nome nel suo tempo e anche prima e anche dopo
– la terza, e poi ecco Salvatore (il nonno di Alziator), e ancora
Pietro e Giuseppe – il quale ultimo avrebbe sposato una Montaldo
che era la sua cognata rimasta vedova per la morte appunto di Pietro.
Giuseppe – il fratello più giovane di Efisio –, se la notizia
può aiutare a dare umanità ai protagonisti di una
storia lontana, morì per un infarto mentre prendeva il bagno
a Giorgino, nel luglio del 1910.
In uno degli altri appartamenti del palazzo, in quella prima stagione
di metà Ottocento, viveva certamente anche uno dei fratelli
di Girolamo, il notaio Efisio sr. (padrino oltreché zio del
nostro Efisio) sposato anche lui con una Marturano, che poi era
la sorella di Fedela Marturano madre di Efisio.
Un flash sui Marturano: anch’essi erano numerosi, una decina almeno
tra fratelli e sorelle di Fedela, e dunque zii materni di Efisio:
uno era prete, monsignore, parroco della collegiata di Sant’Eulalia
e poi canonico del capitolo metropolitano. Aggiungo che anche un
altro zio, don Aitelli, ma zio acquisito (perché fratello
della moglie di Luigi Marini, che un altro dei fratelli di Girolamo),
fu parroco di Sant’Eulalia qualche decennio prima, quando anche
si ipotizzava il trasferimento della parrocchiale, veramente in
cattivo stato, e ormai più cimitero che chiesa, nella chiesa
ex gesuita di Santa Teresa (il futuro Auditorium di piazzetta Dettori).
C’erano questi preti in famiglia, per parte di madre e per parte
di padre – e un terzo se ne potrebbe pure aggiungere, di poco più
giovane –, ed essi partecipavano alla prima formazione scolastica
di Efisio, che peraltro poteva soltanto scegliere, per le elementari
e le classi ginnasiali, fra gesuiti e scolopi; ma c’era anche una
vocazione laica, scientista, sperimentalista, che era quasi connaturata
in Efisio, e che poi si sarebbe radicalizzata.
Ma non era l’ideologia, o la religione, ad aver distinto nei tempi
trascorsi ed a distinguere ancora i Marini. Lo spiega, magari un
po’ romanzando, Alziator: «Erano mercanti, padroni di terre
e di cascine, nella loro schiatta c’erano gradi accademici, onestà
e denari quanti se ne volevano, ma non amavano avere a che fare
con la Corte pretenziosa dei viceré, e con il loro vario
servitorame di spada e di livrea. La loro abitazione aveva da essere
nel quartiere dei consoli e dei mercanti».
Classe 1835, quando la Sardegna era ancora Regnun Sardiniae, e quando
nel quartiere della Marina, che era una delle tre appendici del
Castello, funzionava un Sindacato di quartiere che era una specie
di giunta amministrativa di territorio per la buona conduzione dei
servizi d’interesse collettivo (viabilità, nettezza urbana,
ecc.) – Efisio Salvatore Giovanni Marini – Efisio come lo zio-padrino,
Salvatore e Giovanni come i nonni paterno e materno – ha 13 anni
quando la delegazione sarda chiede a Carlo Alberto la perfetta fusione
col Piemonte (novembre 1847) e quando perciò anche alla Sardegna
è concessa la prima costituzione (1848); ha 26 anni quando
viene sancita l’unità d’Italia e il Parlamento finalmente
italiano vota per Roma capitale.
Ma nel 1861 Marini ha ormai compiuto la prima parte della sua vita:
si è laureato a Pisa in medicina e in scienze naturali –
buon allievo di un cattedratico importante e famoso, il professor
Giuseppe Meneghini, cui il giovane medico e ricercatore di fossili
dedica – ed è proprio il 1861 – il suo primo lavoro a stampa,
“Idee di Paleontologia Generale”.
Dopo la laurea ha lavorato, certamente da precario, come perito
settore: lo ricorda perfino Giorgio Asproni, in una pagina del suo
celebre “Diario”, per una missione di medicina legale in quel di
Nuoro. Era il maggio 1858, e non è che l’impressione del
canonico ribelle deputato da otto anni nel Parlamento subalpino
fosse positiva, chissà se a ragione o a torto: «L’avv.
Corbu crede che lo Scaletta (l’imputato) debba inoltrare all’Avvocato
Fiscale Generale querela criminale contro al Presidente per avere
falsate le attestazioni orali dei testimoni: e contro il Dr. Marini
per la falsa perizia sopra le supposte percosse e contusioni cagionate
al Sig. Bonino».
Occorre però aggiungere che dodici anni dopo, nell’agosto
1870, un mese prima di Porta Pia, il giudizio cambia: a Napoli –
dove entrambi vivono –, «Sono stato in casa tutto il giorno.
E’ venuto a visitarmi il Dr. Marini di Cagliari, ed è molto
soddisfatto dei successi delle sue cure mercé l’invenzione
di certo liquido che guarisce le malattie cancerose. I medici gli
fanno guerra. Invidia e bottega dappertutto. Il Marini è
uomo modesto e di modi semplici: non ha neppure ombra di ciarlataneria».
Un annetto prima s’era affidato alle cure del dottor Marini anche
il senatore Musio, uno dei grandi protagonisti, nonché della
scena pubblica del tempo, anche del “Diario” asproniano.
La ricerca dei fossili e il loro studio – da cui tutto parte, da
cui verranno le intuizioni per i famosi sali della conservazione
dei corpi – datano dagli anni più giovani di Marini, forse
già dall’adolescenza. Todde ci ha ricavato uno dei romanzi
più belli della sua saga (“L’occhiata letale”, ambientato
nel 1854, l’anno della visita cagliaritana di Edouard Delessert),
da questa precoce attitudine e pratica, che ben combina poi con
i sapori ed i colori dei sentimenti d’amore.
Di quelle ricerche scrive egli stesso nelle “Idee di Paleontologia
Generale”, riferendosi ai terreni terziari fra Elmas e il capoluogo,
ma anche dell’Iglesiente. E di quella fase lì delle sue ricerche
annota cose molto acute ed intriganti Antonello Maccioni in un bel
saggio (“Efiso Marini e la conquista dell’eternità”) uscito
su “Studi Sardi” del 1992/1993. Un saggio che introduce la variabile
“alchemica” nella ricostruzione delle sperimentazioni mariniane:
«distillazione, fusione e sublimazione», tre fasi che
vanno in parallelo a quelle del processo fossile: «asportazione
delle molecole organiche, incrostazione con acque calcarifere, combinazione
del calcio».
La gran quantità dei suoi reperti saranno da lui donati al
museo geologico, che giustamente ne prenderà il nome. Lo
troviamo citato intanto già dallo Spano, nella sua celebre
“Guida della città di Cagliari e dintorni”, che è
del 1861, alla pagina 115 dedicata alla Sala mineralogica dell’università:
«E’ degna finalmente di vedersi la collezione di fossili terziarii
che si trovano tra il Masu e Cagliari, fatta dal Dott. E. Marini,
assist. al Museo, e da lui data in dono al medesimo. I pezzi salgono
a 60, tra cui vi sono impronte di foglie di paritaria». (Lo
Spano, che al tempo di uscita della sua “Guida” era magnifico rettore,
precisa che il museo, fondato dal re Carlo Felice quand’era viceré,
con donazione all’università nel 1806, e via via implementato,
si componeva di «sei distinte sale», fra zoologica,
mineralogia ed archeologia, con tanto di direttore, assistente,
applicato e preparatore con due inservienti. E aggiungo io che direttore
del museo d’antichità e di quello di zoologia sarà
per lunghi anni, andando verso la fine del secolo quel prof. Gaetano
Cara che era poi il suocero di Giulia Marini, la sorella di Efisio).
Citazioni della stessa sala sono anche nelle guide successive a
quella dello Spano; ricorderei la “Piccola Guida di Cagliari, Oristano
ed Iglesias” che è del 1872 («Sala mineralogica… la
collezione dei fossili terziarii fatta dal dott. Efisio Marini»).
Non in quella del 1894 del Corona – chissà perché
–, ed ed invece ancora in quella dell’editore Valdès del
1902, che dopo aver menzionato i conferimenti La Marmora, Traverso,
Lovisato, ed altri ancora, ricorda anche «la collezione dei
fossili terziarii esistenti tra Elmas e Cagliari, fatta dal dott.
E. Marini, cagliaritano, l’illustre pietrificatore», del quale
alcune pagine prima la stessa guida ha citato la lapide “in memoriam”
inaugurata soltanto pochi mesi prima, e inserito il nome, ultimo
della serie, fra “Uomini illustri” della città.
Alziator ci romanza sopra, nel suo stile che è anche la sua
virtù migliore: «Quante volte fallì nei suoi
tentativi, quando le sue ricerche cominciarono a dare qualche frutto?
Chissà mai? La loquacità non fu mai un debole dei
Marini, né in particolare lo fu di Efisio… La sua stirpe
caparbia non si poteva smentire. I Marini, così era stato
insegnato anche ad Efisio sin da bambino, quando vogliono una cosa
debbono ottenerla, quando tentano debbono riuscire».
Nel 1856 – si ha questa testimonianza dai giornali del tempo – egli
trae dalle formule per la stampa fotografica elementi di conoscenza
che gli saranno utilissimi per le applicazioni cui si dedicherà
negli anni successivi. Partecipa a una mostra fotografica a Cagliari,
conosce i primi fotografi – e del Lay Rodriguez fu amico intimo
e quasi coetaneo (io ipotizzo perfino una parentela: la madre di
Efisio era una Lai e la riterrei, ancora però senza prove,
stampacina, come a Stampace vissero i Lay). Conosce e frequenta
i primi fotografi, e sperimenta. Intanto frequenta medicina a Pisa.
E da due anni si è sposato.
DRAMMATIZZAZIONE
DEGLI ATTORI PRESENTATA DURANTE LA SERATA SU EFISIO MARINI
Al
monumentale di Bonaria, e nella ricognizione del canonico Spano,
c’era – ed è andata dispersa purtroppo – anche la lapide
di mia madre, Rosa Medaille Arthemalle, che morì prima di
Fedela, la madre di Efisio, nel 1853, un annetto dopo aver messo
al mondo la mia sorellina più piccola, che a sua volta visse
soltanto tre anni. Ci lasciava in sette, accuditi da nostro padre
Antonio, che di mestiere faceva il caffettiere alla Marina a sa
Costa, e ad una sorella di primo letto, già convolata a nozze
con un paesano di Nurachi.
Noi ci sposammo pochi mesi dopo la morte di mamma, nel 1854… Efisio
a 19 anni ed io a 17… Ci sposammo ad aprile; ero incinta di Gerolamo
jr. – Salvatore Gerolamo Ernesto, lo chiamammo quando nacque a settembre
–, creatura sfortunata: visse giusto due giorni, il nostro Gerolamo.
Le nozze erano state benedette dallo zio di Efisio, canonico Ignazio
Marturano, nella chiesa di Santa Caterina alessandrina, a sa Costa:
quella chiesa bellissima che sarebbe stata bombardata nel 1943 e
sarebbe stata sostituita, dai moderni, con i magazzini UPIM e Zara.
Nostri testimoni: Raimondo Ponsiglioni e Raimondo Fogu. Dinastie
importanti, di professionisti o di imprenditori di quel tempo…
Come ho raccontato prima, mia madre se n’era andata in Paradiso
giovane poco più che quarantenne. Aveva sposato mio padre
Antonio Tarasconi nel 1829, l’anno della prima visita a Cagliari
di re Carlo Alberto. La grande storia e la piccola storia... A proposito:
quando tornò in Sardegna – nella Sardegna non ancora piemontesizzata
–-, dodici anni dopo, il re Carlo Alberto visitò anche Pirri
e si godette lo spettacolo dei balli in costume sardo proprio dalla
casa più bella che era dei cugini Marini…
Dicevo…Da un precedente matrimonio mia madre aveva avuto tre figli,
due femmine ed un maschio: Luisa Maria ed Andrea Nicola morirono
però piccolini, a 3 anni e a 2. Dopo neppure un lustro di
matrimonio, non ancora ventenne, mamma era rimasta vedova di Giovanni
Frazzioli, uno svizzero venuto a Cagliari per impiantare una caffetteria
e commerci di bevande. Ne aveva sia alla Marina che a Villanova.
Anche mio padre Antonio, originario dell’isola di Capraia, era nel
settore, credo si siano conosciuti così, mamma e babbo. Quello
era l’ambiente.
Non la voglio fare tragica, la ma cosa era davvero tragica… Pensate
un po’… Questa donna ancora giovanissima, con tre bambini, perde
il marito. Trova, per grazia di Provvidenza, la bontà di
mio padre, che se la sposa dieci mesi dopo, con procedura abbreviata.
E neppure due mesi dopo questo matrimonio, due dei tre bambini Frazzioli
muoiono. Sembrava quasi si dovesse fare tabula rasa per ricominciare…
Quando sposò, babbo aveva 32 anni. Avrebbe vissuto a lungo,
fino agli 84, nella casa che poi prese in via Sassari.
Noi figli Tarasconi eravamo sette, io ero la quarta. Antonio, Angelo
ed Efisio, i maggiori; Francesco, Domenico e Paoletta, i minori.
Naturalmente i nomi qui li ho semplificati, in sette ne contiamo
mi pare 27! Io da sola faccio Giovanna Giuseppa Maria…Nipote Cucuccio
Alziator mi ha chiamato Carmina, e anche Giorgio Todde. Bel nome
Carmina!...
Alcuni dei miei fratelli hanno proseguito con le offellerie – caffè
e anche dolciumi, paste… –, uno (Francesco) è diventato medico,
e anche padre e nonno o bisnonno di medico; un nipote è stato
per molti anni fra i fotografi più apprezzati di Cagliari,
una nipote – sposata con Cova – ha gestito un negozio di ottica…
Col tempo ci siamo un po’ tutti sparpagliati, fra la Marina, Stampace
e Villanova… e noi altri, Efisio ed io, a Napoli addirittura! Oggi
a Cagliari non c’è più nessuno. I Tarasconi sardi
sono ormai tutti nel Sassarese, fra Alghero e Fertiglia e Sassari…
Nel marzo 1857 avemmo Rosa – anzi Antonia Fedela Rosa, Rosa come
mia madre; dopo nove anni, nel luglio 1866, è venuto Vìttore
– Enrico Vittore Ignazio, Vittore come Victor Hugo… Efisio era stato
molte volte in Francia per i suoi studi, per le esposizioni, per
le accademie e le premiazioni, per incontrare l’imperatore Napoleone
III…
Ancora per pochi mesi, fino al 1867, abitavamo anche noi alla Marina,
i bambini sono stati battezzati tutti a Sant’Eulalia. Poi, il trauma
del salto del Tirreno…
Nel Dunque a 19 anni
Efisio ha fatto matrimonio riparatore: la moglie è Giovanna
Giuseppa Maria – Giuseppa per tutti, Carmina per noi altri –, Tarasconi
di cognome; la benedizione nella chiesa dei Genovesi – quella che
sarà oggetto di una visita speciale, dopo un grosso lavoro
di restauro, nel 1924, da parte del quindicenne “philosophus solitarius”
Francesco Alziator, che ne ha lasciato una traccia in un diario
che era inedito fino a quando non l’ho pubblicato io, nel libro
sulla “Città chantant, monarchica clericale e socialista”,
ora sono giusto dieci anni.
Dopo la laurea – che ha dovuto prendere in continente perché
da Cagliari, lui ancora matricola di medicina, lo hanno costretto
ad allontanarsi, con l’accusa, non inverosimile, di aver sottratto
dal gabinetto scientifico un pezzo anatomico per le sue sperimentazioni
– ha fatto tante cose, oltre a continuare nelle ricerche e negli
esperimenti.
«Mesi e mesi di ricerca sotto le volte a botte del Museo di
Scienze, in quelle buie sale tra Via dell’Università e le
Mura del Balice… Da lì il Marini passò all’anfiteatro
anatomico. Poca strada doveva percorrere dal Museo sino alla Sala
incisoria. La Scuola di anatomia umana stava, in quei tempi, e vi
restò sino ai primi decenni di questo secolo – sono parole
di Alziator nel suo scritto apparso sul “Convegno” – in un edificio
a pian terreno, sui bastioni che guardano la Piazza Yenne. La Sala
incisoria si apriva nel cortile interno del Palazzo universitario,
proprio di fronte all’ingresso del gabinetto di Efisio Marini. Era
una sala spaziosa, rotonda, senza finestre, con un’ampia cupola
con le vetrate su in cima, come una cappella di chiesa. Ora è
demolita. I bombardamenti l’avevano risparmiata, i piani regolatori
ne hanno avuto meno riguardo. Allora, intorno era silenzio e solitudine.
Da una porticina su Via del Cammino Nuoro, a piedi dalla Torre dell’Elefante,
a sera, erano introdotti i cadaveri da sezionare; sui cadaveri di
quella scuola, Efisio Marini tentò i primi esperimenti e
su di essi dovette anche avere i primi successi».
E’ assistente al Museo di storia naturale. Le ambizioni sono però
altre: guardano all’Istituto di anatomia umana governato dall’autorità
del celebre professor Giovanni Falconi – l’inventore dell’ago curvo
– o, chissà, ad un incarico in un Gabinetto di anatomia patologica
che si diceva dovesse istituirsi da un mese all’altro, da un anno
all’altro.
Sono ancora gli anni in cui egli insegna scienze naturali all’Istituto
tecnico – lo stesso che si intitolerà, negli anni ’80, proprio
a quel Pietro Martini che, fattosi cadavere, allo sperimentatore
aveva dato gloria imperitura. Documentata e invidiata. Soggiungo,
sul punto, che una ricca dotazione di fossili sarebbe stata donata
dalla famiglia all’Istituto allora forse ancora in via Barcellona,
o magari appena arrivato alle scalette di San Sepolcro, dove sarebbe
rimasto per ottant’anni: ma niente si è ritrovato né
l’Istituto ha l’inventario dei suoi beni mobili.
E a proposito di perdite. Altre se ne possono piangere: come la
foto autografata e donata nel 1868 alla Società Operaia che
con delibera del 23 marzo lo aveva voluto suo socio onorario. Marini
si era trasferito ormai da pochi mesi a Napoli, e in occasione della
sua prima rentrée cagliaritana, l’11 ottobre, era andato
nella sede di via Barcellona, a un passo dalla porta del Molo –
uno degli accessi alla Marina –, per raccogliere l’onorifico riconoscimento
(una medaglia con l’epigrafe «Al dottor E. Marini redivivo
Segato i Soci operai della sua città natale») e sdebitarsi
con quella grande fotografia menzionata da Francesco Corona nella
sua “Cronistoria” del sodalizio mutualistico, che è del 1899:
una foto-ritratto insieme con quella del Martini “risuscitato” e
anche con quella del «famoso tavolo da lui preparato con resti
umani, che tanta meraviglia destava nel mondo scientifico (premiato
all’esposizione mondiale di Parigi) quali oggetti – scrive il Corona
– trovansi nella sala della Società fra altri generosi doni
e ricordi».
Quando dunque verso la fine del 1867 Efisio Marini decide di abbandonare
Cagliari che gli si è sempre mostrata ostile tanto più
nei settori pubblici, accademici e professionali, nei quali sperava
legittimamente di far strada, egli ha con sé la moglie –
di due anni più giovane di lui, giusto trentenne nel 1867
– e due bimbi: Rosa di 11 anni e Vittore di uno.
Lasciano Cagliari all’indomani di un grosso evento, che ha fatto
parlare tutti, a torto o a ragione: della pietrificazione del cadavere
di Pietro Marini, il bibliotecario dell’Universitaria, lo storico
e pubblicista, il cofondatore (con i fratelli Antonio e Michele,
reazionari anch’essi come lui) del giornale “L’Indicatore Sardo”,
l’intellettuale codino ma rispettato che era inciampato brutalmente
nei falsi di Arborea.
Era accaduto nel febbraio 1866 (che è l’anno della terza
guerra d’indipendenza, che è l’anno anche in cui uscirono
da una loggia massonica di Cagliari dei testi importanti per la
diffusione della dottrina liberomuratoria, cui anche Marini era
stato associato nei famosi “Goccius” arma di qualche aristocratico
frustrato avverso i borghesi classe in ascesa anche nella società
locale), – era accaduto che Marini avesse trattato quel corpo di
sessantenne – di un vecchio per quel tempo – nei suoi bagni arricchiti
di sali in dosaggi segreti. I sali si conoscono – li abbiamo trovati
di recente, riportati molto probabilmente dalla mano di Salvatore
Marini su un foglio custodito dai discendenti –, non si conoscono
i dosaggi. Era febbraio. A giugno, quattro mesi dopo cioè,
nel cimitero – là dove una aula si apre alla destra della
cappella e dove le spoglie di Pietro Martini custodite in una cassa
sarebbero rimaste sospese in alto per trent’anni prima di essere
portate nel colombario municipale – quella salma fu esumata ed ispezionata
per certificare l’esito, a distanza di tempo, del trattamento chimico.
Ebbene, quel cadavere aveva conservato non solo la sua integrità,
ma anche il colorito e la elasticità propri di un corpo vivo
ancorché non particolarmente vispo.
Fu fotografato da Agostino Lay Rodriguez, e quella foto rimase esposta
per diverso tempo in qualche vetrina di negozio del centro. E tutti
appunto avevano commentato, più in male che in bene. Non
valsero a far cambiare il segno dei giudizi infondati e prevalenti
gli articoli di Felice Uda, pubblicista e Fratello della loggia
“Vittoria”, presente all’apertura della cassa ed alla fotografazione
della salma intatta: «Il cadavere era dinanzi a lui, pasta
molle, duttile, elastica arrendevole al tatto, quasi l’anima l’avesse
allora abbandonato. Marini aveva un assoluto impero su di lui; egli
poteva atteggiarlo a gravità di storico, comporlo nella fittizia
animazione d’un amichevole colloquio, dare al suo labbro quella
piega abituale di simpatica ironia ch’era così famigliare
al valentuomo».
Fra gli anni delle due lauree e questi della sperimentazione sul
cadavere del Martini e del conseguente amaro, forse irato abbandono
della sua città natale, era corso quasi un decennio in cui
Efisio Marini ancora giovanissimo aveva dato il meglio di sé.
La fama conquistata fu grande, ed era già grande anche prima
del trattamento Martini. Del 1865 è la pietrificazione del
sangue di Giuseppe Garibaldi perso in Calabria e imbottigliato dal
medico del generale, sembra, e spedito a Cagliari. L’eroe dei due
mondi ringraziò per iscritto con parole encomiastiche: «Grazie
per la bellissima medaglia, opera del vostro genio veramente straordinario.
La vostra terra natale andrà superba di voi ed i miei figli
avranno imperituro un ricordo di me e dell’autore dell’opera stupenda».
Della cosa si seppe molti anni dopo…
Sì, nel 1882 eravamo, o
meglio: eravate – ché io appartenevo già alle Valli
Celesti… –, nel periodo della residenza napoletana di Efisio e dei
miei figli.
Efisio scrisse una lettera al quotidiano “Roma”, raccontando delle
due teche col sangue del generale. E riferì di aver conservato
il secondo medaglione per donarlo alla sua città natale…
Il giornale giunse a Cagliari e questa lettera fu ripresa dall’“Avvenire
di Sardegna”, sempre nostro amico.
Immediatamente il sindaco di allora, Salvatore Marcello, indirizzò
a Efisio una lettera – pubblicata anch’essa dal quotidiano di De
Francesco – con cui gli diceva che l’Amministrazione comunale sarebbe
stata onorata del dono: «… la cittadinanza cagliaritana gliene
serberà perpetua riconoscenza…».
Se non sbaglio, Efisio, non gliel’ha mai donata, però, quella
teca, al Comune…
Io li conservavo, fin dall’inizio, quei giornali che parlavano di
Efisio, tante e tante volte in prima pagina, nelle appendìci
che poi proseguivano all’interno… Sono decine… Ho addirittura una
raccolta ordinata di quegli articoli… Spesse volte erano, soprattutto
nel “Corriere di Sardegna” che passava per organo della Massoneria
di Cagliari e anche di Oristano, Nuoro e Sassari, riprese di pezzi
apparsi su giornali continentali o addirittura esteri… Ve ne do
un esempio rapido.
Dicembre 1864: «Lettere pervenuteci da Parigi ci mettono in
grado di annunziare che il nostro concittadino dottore Efisio Marini
ebbe una cordiale e simpatica accoglienza in quella città.
Appena arrivato, egli si mise in relazione colla scuola d’anatomia
e diede saggi delle sue preparazioni agli illustri prof. Tardien
e Sapey. Gli fu esibita e messa a sua disposizione una camera con
due inservienti. Fu grande la sorpresa nel vedere conservate…»,
ecc. ecc.
Marzo 1868: «“Sardi fuori patria”. Annunziamo colla più
intima soddisfazione che il nostro amico dott. Efisio Marini, dietro
rapporto d’una commissione della Accademia imperiale di Parigi che
esaminò i suoi preparati ed il suo sistema di conservazione,
fu dall’Imperatore insignito della croce di cavaliere della Legion
d’onore.
«Il nostro amico, che fece dono a quel sovrano del magnifico
tavolo di cui ebbe già ad occuparsi il nostro appendicista,
ebbe alla Corte delle Tuillerie la più cordiale accoglienza
e fu spesse volte chiamato dall’Imperatore e dall’Imperatrice che
vollero esaminare i suoi lavori.
«Il tempo delle prove per il nostro ottimo amico è
passato. Valgano le onorificenze che gli vengono offerte all’estero
a compensarlo delle sofferenze che gli cagionarono le basse e meschine
guerre degli invidi detrattori della sua fama, qui nella sua città
natia».
In quel tempo, e anche dopo, non si contano i riconoscimenti scientifici
ed accademici internazionali, le partecipazioni alle Esposizioni
di Parigi, Londra, Vienna, Torino, Milano, Roma… Ricordo i titoli
di ufficiale delle Palme Accademiche o della Corona d’Italia…
Ricordo – scorrendo rapidamente la sua scheda biografica – quelli
dell’Accademia Nazionale di Francia e nell’Associazione Scientifica
di Astronomia, Fisica e Matematica… Ma ricordo anche, sempre a Parigi,
un “brevetto di invenzione” della durata di quindici anni, che gli
fu riconosciuto, dal ministro di Agricoltura, quando non aveva ancora
trent’anni!
Speculare all’apprezzamento nazionale ed internazionale fu il muro
di invidia e maldicenza che si alzò contro Efisio nella nostra
città. A scorrere la stampa si troverebbe la prova di attacchi
e sfottò che erano iniziati, in verità, già
dai primi anni ’60.
Il rilancio delle sue speranze sembrò affidato, da principio,
alla proposta dell’istituzione, a spese congiunte di Comune e Provincia,
di un «gabinetto anatomico Marini» – idea lanciata da
un giornale genovese e ripresa dal consigliere civico e futuro sindaco
Emanuele Ravot, Fratello della “Vittoria”. Senza seguito, però…
E’ vero: nell’aprile 1865 la proposta fu depositata in Consiglio.
Relatore era Giuseppe Lullin, consigliere camerale, e con lui sottoscrissero
diversi altri Fratelli massoni, sia quelli democratici-mazziniani
che quelli liberali-monarchici, da Serpieri a Rocca, da Thermes
a Scano, ad altri ancora…
Allora Efisio aveva studio in contrada Gesus civico 33, dov’era
l’antica porta dirimpetto alla manifattura dei tabacchi… Lì
ricevette anche alcuni giornalisti nazionali e stranieri, e studiosi
interessati alle sue sperimentazioni…
Nel 1874, a Sassari, un comitato presieduto dal conte Alessandro
di Sant’Elia lanciò una sottoscrizione per la coniazione
di una medaglia d’onore da donargli con tanto di attestato di ammirazione.
Una sottocommissione si costituì a Cagliari, ad iniziativa
di alcuni appartenenti alla Massoneria: i magistrati Antonio Giuseppe
Satta-Musio – che era stato anche deputato, ed era il fratello del
rettore di Orune Francesc’Angelo, che sarebbe stato ucciso sul ponte
di Marreri (come ci ha raccontato Bachisio Zizi in un bel romanzo)
e Carlo Costa, il professore e avvocato Gavino Scano, il professore
e ingegnere Filippo Vivanet…
Ci furono manifesti e raccolte di fondi per paesi ed uffici in città…
Si raccolsero molte lire, mi pare di ricordare qualcosa come 700
nel Cagliaritano, e oltre 1.500 in tutta l’Isola…
Efisio ringraziò Sassari con il dono, nel 1876, di un pezzo
anatomico pietrificato: la mano di una fanciulla con polsino in
argento, inciso con la dedica alla città. Così anche
nel cofanetto. Credo sia conservato nella collezione anatomica intitolata
al professor Luigi Rolando, in quell’università.
Ma prima s’è detto del trattamento riservato alle spoglie
del commendator Martini. Ricordo benissimo anch’io la cosa. Io stavo
per partorire Vìttore, allora. Efisio era eccitatissimo per
questa sua avventura professionale che si sovrapponeva a quell’altra
nostra domestica. La foto del commendatore fu diffusa a Cagliari
e destò molta curiosità. Lo si rivedeva, quattro mesi
dopo la morte, come era…
Una rivista medica fiorentina scrisse… ce l’ho qui… «egli
ha superato il suo predecessore in questo, che è riuscito
a ridurre allo stato lapìdeo la stessa sostanza nervosa,
cosa a cui non era arrivato il Segato. Egli mostra infatti il sangue
e pezzi di vari visceri, reni, fegato e lo stesso cervello, ridotti
allo stato lapìdeo, mentre per le altre apparenze loro di
conformazione e di colorito lasciato a divedere la natura loro primitiva»…
Insomma, quando la dissecazione non era completa, riusciva a restituire
le membra alla forma e ai volumi naturali, e incidendo quelle carni
mostrava in sezione muscoli, tendini, nervi, arterie e vene, sembrava
una nuova creazione… Non c’era l’anima, ma Efisio non era Dio…
Il segreto della formula era non tanto nella tipologia dei sali
con cui Efisio riusciva ora a pietrificare ora a superare la pietrificazione
recuperando colorito ed elasticità ai corpi, era nei dosaggi…
La mano di suo fratello Salvatore le aveva elencate, una volta,
le sostanze: «Cristalizare, silicato di potassa e verde rame
per le renelle, carbonato di litina…».
Nel 1865 – l’anno prima del gran successo con le povere membra del
Martini, ma dopo già tanti successi fuori patria – fu accusato,
da un anonimo, di essere massone. Come se ci fosse da vergognarsi
della cosa, anzi!....
Nei famosi “Goccius” che allora erano stati diffusi, alcuni versi
dovevano riguardarlo direttamente: «Unu tontu che sa perda
/ su chi salit is pipius / de spilliri circat is bius / nendi ch’imperdat
is Mortus / ma cun tottu is confortus / ha fattu cuccurumbeddu».
«Un tonto – o un duro (più probabilmente) – come le
pietre colui che mette i bambini sotto sale, tenta di pelare i vivi
dicendo che pietrifica i morti, ma con tutti i conforti, ha fatto
capitombolo». Che non è gran poesia, si capisce subito.
La fama di scientista che lo accompagnava doveva legittimare il
sospetto, e con il sospetto la accusa.
Certo è che una scheda del Grande Oriente d’Italia relativa
alla loggia “Vittoria” dà per scontata l’appartenenza scrivendo
ad un certo punto: «Nel 1867 il Fr. Prof. Efisio Marini presenta
all’accademia medico-fisica di Firenze una relazione sulla mummificazione
e la conservazione delle carni». Tanto deriva da una segnalazione
registrata nel “Bollettino del Grande Oriente della Massoneria in
Italia”.
Giusto la metà della sua vita Marini la visse a Cagliari,
l’altra metà a Napoli. Qui ebbe degli incarichi universitari,
mai però, neppure lì, quella cattedra che sognava.
Gli chiedevano in cambio la formula segreta, ma poi erano disposti
a dargli – nonostante gli interventi del rettore e dello stesso
ministro – niente di più che incarichi annuali. Oppure la
cattedra in un liceo. Pensando a quanto effimera possa essere la
parola quando le convenienze venali sono robuste, rinunciò
lui a tutto.
Cambiò più volte casa – via Montedidio, via Ricciardi,
via Summonte –, si fece interno a quella società urbana,
e molto lavorò, e meritoriamente, tanto più quando
scoppiò in città, proveniente dal nord Italia, una
terribile epidemia colerica.
I primi anni partenopei, trascorsi con la famiglia – ma poi Giuseppa
morì nel 1879, lasciandolo solo con Rosa allora 22enne e
con Vittore appena 13enne –, furono intensi e le frequentazioni
sociali di livello, fra intellettualità e professioni, e
politica. Salvatore Di Giacomo, Matilde Serao, Arrigo Boito sono
alcuni nomi che si fanno generalmente elencando amici ed ammiratori.
Un importante disegnatore/caricaturista – Antonio Manganaro – lo
ritrae, fra tanti napoletani della haute e amministrativa e accademica:
«non c’è che lui, non c’è che lui» è
la didascalia che lo indica come ormai la sua figura s’è
fatta in una specie di vecchiaia precoce. Egli ha soltanto, forse,
41-42 anni, ma ne dimostra quasi il doppio: ampia calvizie, niente
più favoriti ma invece due grandi baffi a manubrio, uno sguardo
mesto e pensoso; una piccola borsa scura a tracolla, sul rendigote,
e le mani dietro la schiena che reggono il bastone che in capo ha
– ma qui è rovesciato e gioca fra le gambe – una lunga mezza
luna con la scritta del memento del mercoledì delle ceneri:
«et in pulverem reverteris».
Una curiosità: questa caricatura appartiene ad una sottocartella
di cinque tavole (ribaltata nel 1943 nel libro “Napoli com’era e
com’è” di Luciano Jacobelli); le altre rappresentano le fattezze
del Duca di San Donato – uno dei padroni della Napoli politica ed
economica del tempo, anche come presidente del Banco di Napoli –,
dell’assessore al piano regolatore comm. Zizzi, del mandolinista
Silvestri autore d’una celebre “Serenata”, e del giurista professor
Enrico Pessina. Curiosamente, a Cagliari la via Marini sarà
proprio una traversa della via Pessina.
Ma forse il maggior sodalizio fu quello stretto con Giovanni Bovio,
repubblicano – capo ideologico del postmazzinianesimo dopo la morte
del Profeta –
e alto dignitario del Grande Oriente d’Italia, per lunghi anni Grande
Oratore della giunta di governo. Un pugliese di Trani trasferitosi
anch’egli a Napoli e fattosi napoletano d’adozione. Docente universitario
per chiara fama, filosofo.
Di due anni più giovane dell’amico cagliaritano, si era proclamato
cittadino della repubblica, di una repubblica inesistente in Italia
negli anni lontani che ancora precedevano l’unità territoriale
e costituzionale della patria, che peraltro sarebbe stata monarchica.
Arrivò a Napoli nel 1869, un annetto dopo Marini. Fu tra
i promotori e protagonisti dell’Anticoncilio – la risposta degli
anticlericali razionalisti alle assise conciliari convocate da Pio
IX (il Concilio Vaticano I) ed interrottesi con la breccia di Porta
Pia. Andò da un concorso all’altro, per la cattedra ora di
letteratura ora di filosofia – pur avendo più interesse per
il diritto –, fra liceo ed università. Finì tutto
finalmente con il posto di professore pareggiato di Enciclopedia
del diritto, cui seguì la pubblicazione di tre sodi volumi
di storia del Diritto, di scienza del Diritto, di filosofia del
Diritto. E negli anni molti altri se ne aggiunsero. Pubblicò
anche testi teatrali, drammi serissimi, con personaggi come San
Paolo o San Tommaso d’Aquino. Ogni volta fu un caso. Dalla città
del papa aveva avuto nel 1864 scomunica e interdetto, al tempo dei
drammi teatrali – trent’anni dopo – si replicarono le condanne.
Eletto in parlamento pronunciò il suo primo discorso nel
gennaio 1877 per la disciplina delle attività dei ministri
di culto. La Camera avrebbe pubblicato, nel 1915, una ampia selezione
dei suoi interventi. Fu a Montecitorio per nove legislature, fino
alla morte giunta nell’aprile 1903. Tre anni dopo quella di Efisio
Marini.
E’ da credersi che i comuni circoli universitari, gli interessi
scientifici – chiamali razionalisti o positivisti o in altro modo
–, una certa sensibilità civile o politica che non s’integrava
con il sistema conservatore della monarchia e dei governi del tempo,
Crispi, di Rudinì, Pelloux ecc., questo legò in amicizia
Bovio e Marini.
Non è stata ancora esplorata questa pagina che potrebbe essere
fra le più ricche della biografia napoletana di Efisio Marini,
e costituisce quindi un filone privilegiato di ricerca futura. Certo
è che la conoscenza si approfondì e si fece cosa pratica,
azione solidale per il bene della città, nei primi anni ’80,
quando Napoli fu raggiunta dall’epidemia colerica scoppiata nel
sud della Francia e poi scesa regione dopo regione lungo tutto lo
Stivale. Collaborarono allora come un sol uomo laici anticlericali
e militanti dell’apostolato cattolico con in testa il cardinale
arcivescovo Guglielmo Sanfelice (di cui si legge che Marini avrebbe
pietrificato il cadavere un giorno lontano)… Tutti parteciparono
al soccorso, le parrocchie e le logge, i repubblicani e socialisti
ed i confratelli della Madonna o di San Gennaro, senza differenze
e senza ambizioni di benemerenze fra i volontari… I massoni avevano
le tre stellette sul petto e la croce verde sul braccio, nessuno
si scandalizzò…
Marini riuscì a frenare le forme dissenteriche proprie del
virus attraverso quell’acetato di alluminio che, fra gli altri composti,
aveva utilizzato per i suoi bagni conservativi, anche se poi preferì
puntare su altre sostanze con minori controindicazioni… Fu, Marini,
un campione di carità civica, un santo autentico nella competenza
e nel servizio alla causa dei malati, nel 1884, alla Sezione Mercato
e Torre Annunziata!
Si consideri, per avere appena un’idea delle dimensioni di quell’epidemia,
che soltanto nella prima decade del mese di settembre furono riscontrati
oltre 3.300 casi, il 90 per cento fra i quartieri poveri e malsani.
Allora Napoli contava 45mila vani e 54mila bassi…
Fissò sulla carta la sua testimonianza scientifica, trasmessa
al commendatore Mariano Semmola, Ispettore sanitario della Croce
Bianca. Una copia di quel libretto preziosissimo, firmato con dedica
dall’autore, si trova nella nostra Biblioteca Universitaria. Inviando
quel testo prezioso alla Biblioteca – quella Biblioteca che era
stata diretta in anni remoti dal commendator Martini –, egli cercava
ancora il contatto con quella Cagliari che era sempre stata avara
con lui… Triste a dirsi, ma vero: «la giustizia postuma è
rimorso»!
Nell’ottobre dello stesso 1884 ricevette, con altri medici e volontari,
il diploma di benemerenza – di «valentissimo e solertissimo»
– della Croce Bianca. Della sua opera, della tecnica curativa assolutamente
geniale, e più ancora dei risultati conseguiti, scrisse a
lungo “Il Piccolo” di Napoli (ancora non usciva “Il Mattino”): «L’apparecchio
per enteroclisi ed ipodermoclisi che adoprò ed usa il Marini
è assolutamente nuovo e da lui ideato…».
Concedimelo, Efisio. Io non avrei
voluto lasciarti così giovane – giovane tu e giovane io –,
avrei voluto invecchiare con te.
Ti ho amato moltissimo, credo di aver capito tutto del tuo mondo
interiore da subito, allora, quando cominciammo a far l’amore.
Eri bello, bellissimo – GUARDA, HO PORTATO IO LE TUE FOTOGRAFIE,
IN SEQUENZA D’ETA’ SONO QUI DIETRO, E IO MI SONO MESSA VICINA A
TE –, avevi occhi che mi prendevano, intelligenti e malinconici...
Ti ammiravo, non ti amavo soltanto!
Giovane di vent’anni, avevi sembianze di un uomo vissuto, di un
professore patriota risorgimentale…
Avevi una parola pacata, forse vincevano i silenzi, ma erano silenzi
pieni, i tuoi… Pieni di pensiero e di sentimento. Quanto t’ho amato,
per gli sguardi e le carezze, per le parole e anche per quei silenzi!
Di me, non ho deciso io, lo sai, ma Domineddio…
Sono dovuta migrare, molto prima di te, nelle Valli Celesti dov’è
la pace delle creature amate…, quella pace che gli uomini neppure
immaginano, se non i poeti forse, o gli uomini della musica, o i
mistici…
Non ti sono mai stata lontano, però… E quando, nel non tempo,
ci siamo rincontrati qui, sul manto di Domineddio, ci siamo presi
di nuovo com’era stato allora, e la tristezza l’abbiamo cambiata
in felicità, una strana felicità…
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